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LO STUDIO DELLE MALATTIE GENETICHE DEL FEGATO AIUTA A CAPIRE COME INTERVENIRE SU QUELLE EPATICHE PIÙ COMUNI
fonte principale per il seguente articolo il Comunicato stampa del 25 giugno 2019 dell'università degli studi di Padova, gentilmente fornito dal Prof. Mario Strazzabosco
Le malattie genetiche e congenite del fegato, specie quelle che colpiscono le vie biliari e conosciute come colangiopatie, sono patologie a rara incidenza e fino a pochi anni fa anche poco studiate. Negli ultimi anni sono diventate oggetto di un crescente interesse che ha generato nuove conoscenze sinora mai sistematizzate in modo da ricavarne una visione unificata. Un importante lavoro di revisione della letteratura è stato pubblicato di recente sulla prestigiosa rivista «Nature Reviews Gastroenterology & Hepatology». Si tratta di una collaborazione internazionale tra il Liver Center della Yale University, il dipartimento di medicina molecolare (DMM) dell’università di Padova e il Biodonostia Health Research Institute dell’università spagnola di San Sebastian. Tra gli autori il professor Strazzabosco e il professor Luca Fabris.
“Da anni studiamo malattie epatiche poco note, ma rilevanti, perché orfane di trattamento e perché colpiscono bambini e giovani adulti - spiega il prof. Luca Fabris dell’università di Padova - si tratta di malattie colestatiche e delle vie biliari che possono anche evolvere verso la cirrosi e il tumore epatico. Sono rare, ma contano per più del 70% dei trapianti effettuati in età pediatrica e per il 20% circa di quelli effettuati in età adulta. Molti pazienti, purtroppo, non arrivano al trapianto”.
“Nell’articolo abbiamo focalizzato l’attenzione su quattro patologie (il fegato policistico, la sindrome di Alagille, la fibrosi epatica congenita e la epatopatia da fibrosi cistica). Queste patologie sono causate da mutazioni genetiche che colpiscono proteine espresse sulla membrana delle cellule dei dotti biliari, come le policistine e la fibrocistina, capaci di controllare importanti funzioni della cellula epiteliale, come la proliferazione cellulare o la secrezione di mediatori dell’infiammazione. La perturbazione di queste attività indotta dall’espressione di una proteina mutata e malfunzionante, porta da un lato ad una crescita esuberante delle strutture biliari che vanno a formare delle cisti che possono raggiungere dimensioni anche superiori ai 15 cm all’interno del fegato, dall’altro richiamare cellule endoteliali e cellule infiammatorie, con sviluppo di vasi sanguigni, infiammazione e fibrosi, che sono processi stereotipati con i quali le malattie epatiche croniche progrediscono verso la cirrosi e il cancro. Rivedere in maniera sistematica molti dei nostri lavori eseguiti in questi anni–all’interfaccia tra clinica e laboratorio - mi ha fatto pensare, a come stia diventando sempre più profonda la demarcazione dei rispettivi ruoli di medico e dello scienziato: il medico, sempre più immerso nella gestione clinica quotidiana, si è impossessato della parte più prettamente pratica, col risultato che la figura del Physician Scientist si sta estinguendo”.
“L’epatologia ha fatto passi da gigante e siamo ora in grado di prevenire e curare molte delle principali malattie epatiche. Tuttavia, le malattie colestatiche e delle vie biliari rappresentano ancora un mistero, che si traduce nell’assenza di terapie curative – sottolinea Mario Strazzabosco – e queste malattie rimangono tra le principali “unmet needs” dell’epatologia. Anni or sono abbiamo fatto la scommessa che andando a cercare i meccanismi fisiopatologici di malattie colestatiche rare e geneticamente determinate, avremmo potuto ricavare informazioni rilevanti in senso generale, in quanto potevamo controllare meglio le condizioni sperimentali e quindi amplificare il guadagno di informazioni. Abbiamo anche investito nel generare nuovi modelli cellulari, come le “induced pluripotent stem cells” e gli “organoidi” che ci hanno consentito di lavorare con cellule facilmente derivabili dai pazienti stessi e differenziabili in vitro nei tessuti desiderati. Questo approccio ci ha ripagato, e come sottolineiamo nel lavoro appena pubblicato, ci ha consentito di avvicinarci di più alla comprensione di come il fegato reagisce a certi tipi di danno e come ripara le ferite ed eventualmente rigenera. Questo ha portato all’identificazione di una serie di possibili bersagli molecolari, che potrebbero un domani divenire “azionabili”, che poi significa sfruttabili ai fini terapeutici, se così posso tradurne il concetto. È stato un viaggio interessantissimo - continua Mario Strazzabosco - ma originato sempre da osservazioni cliniche fatte di persona, su pazienti affetti da queste malattie, e che ricevevano un trapianto o venivano studiati per un trapianto. Questo lavoro è un esempio che si presta ad alcune considerazioni di sistema: infatti parla di epatologia molecolare e traslazionale, del ruolo dei reparti e dei dipartimenti accademici nella generazione di conoscenze, nell’innovazione e nella scoperta di nuove vie e soluzioni. Viene riaffermato con forza il ruolo chiave nelle moderne università di ricerca del Physician Scientist”.